PAZZAGLI: ACQUA BENE PREZIOSO DA RIPUBBLICIZZARE

Abbiamo recuperato il testo dell’intervento del 21 febbraio 2004 al convegno su “Acqua bene comune” che si tenne quell’anno a Livorno, dell’allora sindaco di Suvereto Rossano Pazzagli. In questo intervento vengo infatti espressi molti dei dubbi e delle problematiche che a distanza di due anni hanno poi realmente colpito il territorio della Val di Cornia e della Costa Etrusca, e che qui vi riproponiamo nella sua versione integrale.

«In questo breve intervento svilupperò alcune riflessioni sul ruolo che i Comuni possono giocare, accennando all’esperienza della Val di Cornia.
La prima considerazione è che avendo alle spalle un periodo tendente alla mercificazione ed alla aziendalizzazione dell’acqua, i Comuni oggi possono e devono assumere una funzione nuova: ma quali Comuni e quale ruolo?
Intanto c’è da rilevare l’impossibilità per i comuni più piccoli di giocare un ruolo adeguato; ricordo che in Italia i comuni sotto i 5000 abitanti sono il 72% del totale e coprono più della metà del territorio e che quasi sempre è su questo territorio che stanno le fonti principali di approvvigionamento idrico. Con la logica a cui siamo stati portati dalla normativa nazionale e regionale (poiché la Legge Galli sposta la titolarità del servizio idrico dai comuni agli Ambiti Territoriale Ottimali, che poi le regioni avevano il compito di definire), i comuni nei nuovi soggetti titolari del servizio idrico contano pro-quota, in relazione cioè alla loro dimensione demografica.

Per darvi un dato e per fare un esempio, il Comune di Suvereto conta nell’ATO Toscana Costa per lo 0,80 per cento; eppure il Comune di Suvereto ha pozzi, fonti di approvvigionamento ai quali attingono acquedotti dell’intera Val di Cornia e dell’Isola d’Elba (che, come sapete, è vincolata da una condotta sottomarina alla risorsa della Val di Cornia). All’estremo opposto il Comune di Livorno, che invece acquisisce gran parte, se non totalmente, la sua risorsa all’esterno dell’Ambito, pesa dentro all’ATO per oltre il 46 per cento. Vi pare corretto da un punto di vista ambientale e sociale?
È evidente che qui c’è innanzitutto una necessità di riequilibrio, per fare pesare di più le realtà che sulla risorsa hanno un ruolo significativo e che debbono garantire ai propri cittadini eguali condizioni e stessi diritti di chi abita nelle realtà più grandi».
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«Vorrei dire che questo comporta anche una critica, prima ancora che alla privatizzazione, ai processi di concentrazione e di aziendalizzazione, alla questione dell’assetto complessivo e degli ATO. Gli ATO così come sono, secondo la nostra esperienza non vanno bene. A parte che in Toscana sono fatti anche male, non so nelle altre regioni, perché non sono tagliati sui bacini idrografici, che risponderebbero alla logica di collegare la risorsa al suo uso, tenendo nella dovuta considerazione i caratteri e le vocazioni territoriali. Gli ATO in Toscana, il nostro in particolare (l’ATO 5 “Toscana Costa”), non hanno la possibilità di un raccordo vero tra tutela della risorsa, programmazione e gestione dell’acqua.

La Legge Galli prevede gli ATO, il gestore unico, il passaggio della titolarità dai comuni all’Ato, che in Toscana ha assunto la forma del consorzio obbligatorio, etc.. Il risultato che noi abbiamo avuto, giudicando secondo l’esperienza della Val di Cornia, non è al momento un risultato positivo. L’esperienza è, per certi versi, anomala. Infatti in quest’area (formata dai comuni di Campiglia M., Piombino, San Vincenzo, Sassetta e Suvereto), dopo la tradizionale gestione diretta da parte dei Comuni, si sperimentò agli inizi degli anni ‘90 una gestione privatistica, con l’affidamento del servizio idrico alla Società Italgas da parte dei Comuni. Allora i Comuni avevano tre possibilità: gestire direttamente, costituire consorzi o società per la gestione o affidare il servizio a privati, che poi erano le forme previste dalla legge 142. Così i cinque comuni della Val di Cornia fecero questa esperienza di affidamento del servizio idrico acquedotto, fognatura e depurazione ad una azienda esterna: l’Italgas.

Ebbene qualche anno dopo i comuni della Val di Cornia hanno deciso di interrompere questo rapporto, tornando ad una gestione pubblica, interrompendo il contratto con Italgas per riportarlo in capo a un consorzio intercomunale che nel frattempo avevano costituito con il compito di tutelare e gestire la risorsa idrica (il CIGRI). Questa era la fase in cui ci ha trovato la nuova normativa, cioè un percorso che aveva già sperimentato le differenze tra gestione diretta e gestione privata, con il ritorno, per volontà dei comuni, ad una gestione pubblica esercitata da un consorzio pubblico, successivamente trasformato in società per azioni interamente pubblica (il CIGRI spa).

Poi è arrivato l’ATO, il tentativo estenuante di una programmazione di area vasta, il piano d’ambito, l’individuazione del gestore unico e un processo doloroso di concentrazione aziendale. Questa è la strada che abbiamo seguito qui a Livorno: quella di formare il gestore unico attraverso la concentrazione delle aziende pubbliche esistenti in tutto l’ATO che gestivano in quel momento il servizio, oltre alla presenza dei comuni che gestivano ancora direttamente l’acqua, le fognature e la depurazione: in sintesi l’azienda della Val di Cornia (CIGRI) e l’azienda di Volterra (ASAV) sono confluite nell’azienda di Livorno (ASA) individuata come elemento di concentrazione. Dopo la concentrazione, siamo ora nella fase di privatizzazione di una quota minoritaria di ASA spa.

A fronte di questo percorso, se io dovessi dire qual è oggi, a qualche anno dall’inizio di questa esperienza, il risultato sul mio territorio e nella società locale, devo trarre queste conclusioni: che il servizio si è allontanato dai cittadini; che è più costoso, e questo lo sappiamo tutti; che è anche meno efficiente. Eppure questo era il punto di forza di chi sosteneva il livello della concentrazione e del cambiamento di scala, che in sostanza diceva (e tutti noi abbiamo con più o meno convinzione sostenuto ciò): avremo gestioni più efficienti, “meno costose”, più in grado di programmare e di fare investimenti. Oggi il servizio è meno efficiente, gli investimenti strutturali e la miglioria degli impianti si sono sostanzialmente fermati; a fronte dell’aumento del costo della bolletta non c’è stato un corrispondente aumento degli interventi, di ammodernamento delle reti, di investimenti per l’estensione del servizio e per nuovi impianti, etc..

Faccio un esempio: fino a qualche anno fa i Comuni facevano direttamente gli investimenti. Nel mio comune mancavano ancora gli acquedotti in campagna e lo sforzo che abbiamo fatto come amministrazione locale, indebitandoci anche, ma indebitandoci utilmente in questo caso, è stato di servire nuove famiglie e imprese costruendo acquedotti anche quelle zone che non erano servite dall’acqua potabile. Questo tipo di intervento si è fermato. Oggi i comuni non sono più i titolari dell’investimento in questo settore, il Piano d’Ambito sostanzialmente giace, il gestore non ha cominciato gli investimenti previsti da questo piano. C’è una situazione ferma che paghiamo già oggi ma che probabilmente sconteremo ancor più in futuro. Le uniche cose che sono cambiate davvero sono i costi del servizio per l’utente e la diminuzione dell’efficienza, soprattutto nella percezione comune. Il livello della percezione non è secondario: sentire gli utenti, i cittadini su questi temi è istruttivo, è utile, dalle piccole cose, dalle riparazioni delle perdite ai costi e ai tempi per un allacciamento … Si aggiunga anche la sordità dell’Ato e del gestore aziendale alla necessità di stabilire fasce sociali per l’applicazione delle tariffe, come se la soglia di accesso all’uso di un bene fondamentale come l’acqua fosse la stessa per tutti, ricchi e poveri.

Ma qui mi si potrebbe legittimamente obiettare: come fa un sindaco a dirci queste cose? Se i sindaci sono gli attori protagonisti di questo percorso, poiché l’ATO è un consorzio obbligatorio dove, appunto, i componenti dell’assemblea sono i sindaci? Domanda che mi aspetto e a cui non voglio sottrarmi. Da questo punto di vista faccio due considerazioni: da una parte quella che ho fatto prima, cioè l’impossibilità, la difficoltà per comuni piccoli, che sono la maggioranza numericamente, ma la minoranza come peso, di incidere; dall’altra, che pur avendo fatto un percorso come quello delineato, che era sostanzialmente previsto dalla legge, è oggi necessaria e urgente una riflessione su ciò che abbiamo fatto e se questo non ci convince porre il problema con forza. Io, che certi atti e certi passaggi li ho votati come tutti gli altri sindaci dell’ATO 5, posso dire di essere un sindaco pentito, o comunque che avverte la necessità collettiva di un ripensamento. Mi sembra meglio assumere oggi un atteggiamento fortemente critico, piuttosto che proseguire su un cammino che aggraverà le problematiche ambientali e ridurrà ancora la democrazia e l’uguaglianza dei cittadini. Altrimenti si resta invischiati in un disagio forte, che è prima di tutto un disagio politico, di cui poi dovremo inevitabilmente rendere conto.

L’ultimo aspetto, che avendo esaurito il mio tempo posso solo accennare, è la questione della tutela della risorsa, dell’acqua come bene comune. In Val di Cornia c’è una situazione di crisi anzi di emergenza idrica molto forte (dovuta al deficit idrico tra consumi e rigenerazione della risorsa) che avevamo cominciato a governare; è stata un’area dove si sono realizzati i progetti, per esempio quello del riuso di tutte le acque reflue di Piombino con destinazione industriale, in modo che l’industria potesse per il corrispondente quantitativo diminuire l’emungimento dalle falde profonde; lo stesso è avvenuto sul piano irriguo con l’uso di acque superificiali (es. Fossa Calda a Venturina), nell’ambito del risparmio idrico con interventi e campagne che facevamo con la nostra piccola azienda pubblica, alla quale avevamo dato compiti non soltanto di gestire le reti ma anche di occuparsi dell’uso agricolo, dell’uso industriale, della tutela: un soggetto unico, insomma. Adesso il gestore può rispondere a me, sindaco che gli pongo un problema, dicendo: ma io ho soltanto il compito di gestire l’acqua, il servizio idrico integrato, non mi posso occupare dell’agricoltura, non mi posso occupare dell’industria. Questo è un problema grande: si rischia di perdere l’esperienza positiva accumulata nella salvaguardia della risorsa.

L’acqua non è soltanto un bene comune, è senza dubbio un bene comune, ma è anche una risorsa naturale da gestire nella sua complessità e nella sua unitarietà. Penso, per concludere, che vada ripensato il concetto stesso di gestore unico e che solo la sfera pubblica può guidare una revisione critica del percorso fin qui imboccato».

Rossano Pazzagli (21-02-2004)

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Scritto da il 26.9.2005. Registrato sotto Senza categoria. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione

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