VIAGGIO NEL «GHETTO» DI PIOMBINO

immigrazionePiombino (LI) – Chaka (nome volutamente fantasia, ndr) si rifugia dentro il cappotto primaverile che a stento lo ripara dal vento invernale che soffia su Piazza Dante a Piombino. «In tanti anni che sono a Piombino sei il primo bianco che si siede volontariamente al mio fianco su una panchina» quasi sussurra ridendo. Chaka ha 39 anni, è sposato, con cinque figli e tutta la famiglia in Senegal. «Se entro la primavera non trovo lavoro me ne torno in Africa. Qui che ci sto a fare? Sono solo, il permesso di soggiorno mi è scaduto, si spende tantissimo e abito in una stanza con altri sei compagni».

Chaka non è l’unico immigrato che, complice la crisi, sta pensando di tornarsene nel paese d’origine «dove la vita è meno complicata». Rimpatri forzati, emigrazione di ritorno e non perché si è trovato il successo ma a causa del fatto che il paese che doveva aprire le opportunità sta sprofondando nella povertà e nello sconforto.
«Qui ormai, di legale, non c’è più nulla da fare» mi dice Sef. Anche lui senegalese, 25 anni, lo si può vedere spesso ciondolare con una birra in mano per il centro della città e spesso nella stazione ferroviaria. «Anche se hai il permesso di soggiorno tutti ti vogliono assumere al nero, ti pagano una miseria, sempre che ci sia anche quel tipo di lavoro». Sef si prostituisce, per pochi spiccioli, a uomini e donne, all’aperto, in macchina, in casa. «Sono musulmano, queste cose non le dovrei fare ma devo pur mangiare. Non ce la faccio a rubare o a spacciare» mi confessa quasi scusandosi.
La sera tardi la stazione di Piombino, a cui si può accedere liberamente senza che alcuna recinzioni protegga i binari vuoti, diventa un vero e proprio luogo d’incontro. Immigrati, uomini, donne e trans che si prostituiscono, qualche occasione di spaccio, un po’ di chiacchiere. Non è un vero e proprio bronx, l’atmosfera è più bonaria e meno truce, l’impressione di pericolo si attenua ma i dolori rimangono i soliti. «La stazione è ormai abbandonata» prosegue Sef «a nessuno gliene importa più nulla e quindi qui vedi solo noi, qualche spacciatore arabo, qualche barbone. E’ diventata un po’ la nostra casa, tanto anche di giorno i treni sono pochissimi e di notte chiudono l’atrio ma non il resto».

Una mattina vado al Centro d’ascolto della Caritas in Via Landi, che è al centro di quella che alcuni piombinesi chiamano la Casbah per testimoniare che qui, ormai, gli italiani sono in minoranza: da Piazza Dante fino alle ultime case prima delle industrie e la seconda parte di corso Italia, quasi tutta via Pisacane, Via Colombo e zone limitrofe. Vedo una dozzina di immigrati dell’est europeo e del nordafricano che discutono animatamente con alcuni operatori circa i buoni spesa di Unicoop. «Agli italiani danno il mangiare, a noi le poche volte che ci danno i pacchi regalo è sempre meno dei loro» esclama Cottos, una rumena sui trent’anni dalla lingua molto sciolta. «Sempre due pesi e due misure, noi siamo sempre meno di loro». E la conversazione ruota sempre sul «noi» degli immigrati e sul «loro» degli italiani. «Prima eravamo lavoratori stagionali», dice Edoardo, un rumeno di 23 anni con già due figli a carico, «facevamo anche le pulizie, ora non si trova nulla. Come faccio con una moglie e due figli?» mi domanda con voce angosciata.

«Le nostre risorse sono limitate» mi dice Serenella, una delle colonne portanti del Centro di Ascolto Caritas. «Non possiamo più dare i buoni dell’Unicoop a pioggia. Quando ci sono i viveri li distribuiamo a tutti ma secondo quelle che noi riteniamo essere giusto cioè prima le famiglie con bambini piccoli, gli anziani e poi gli altri. Loro hanno questo difetto – prosegue la volontaria – cioè guardano quello che gli altri hanno e non solo il loro, e se uno ha di più va subito a vantarsi con gli altri». Emilio, un altro volontario mi spiega che «il bisogno è tanto ed è aumentato in maniera esponenziale dopo il 2010, sia per gli italiani che per gli stranieri. Gli stranieri, soprattutto quelli di alcune nazionalità, hanno anche molte pretese e non capiscono che le risorse non sono infinite». Quando domando cosa stanno facendo la politica e le istituzioni per aiutarli la risposta è un sorriso amaro: «La politica soffia sul fuoco con razzismo da un lato e buonismo dall’altro. Qui ci sarebbe un tavolo per la povertà ma non si riunisce mai. Alla fine anche noi siamo diventati più degli scribacchini, dei burocrati che, invece, l’occhio della Chiesa cattolica verso i poveri, che è la missione essenziale della Caritas. Anche le assistenti sociali fanno quello che possono e poi ce li mandano qui come se noi si avesse la bacchetta magica».

Lorella e Carlotta si occupano di mandare avanti l’ufficio immigrati. «A costo di essere visti male abbiamo fatto una scelta, ovvero quella di non dare, se non in limitati casi, i buoni Unicoop agli immigrati, ma di pagare una certa quota delle loro bollette. Ormai dopo un mese di mora l’Enel stacca l’energia elettrica con cui non solo si illuminano ma si scaldano d’inverno: questa per noi è diventata la priorità» mi dice Lorella mentre Carlotta aggiunge: «Ci chiedono qualsiasi lavoro ma noi non sappiamo cosa rispondergli, ci sono tante richieste per pagargli i biglietti per il ritorno in patria, anche se alcuni ritornano, magari solo per l’estate. E poi li aiutiamo con la burocrazia, con il pagamento di alcuni ticket sanitari. Volevamo aprire un ambulatorio medico, alcuni dottori si erano già resi disponibili gratuitamente ma poi il progetto si è arenato in qualche secca burocratica». Gli domando sulla prostituzione, specie quella maschile che è più nascosta. «Si prostituiscono? A noi certo non lo vengono a dire, sul sesso si vergognano tantissimo, abbiamo comunque aiutato alcuni ragazzi alle prese con malattie sessualmente trasmesse.»
E gli italiani che abitano vicino al quartiere degli immigrati come vedono la situazione? «Anche noi meridionali a volte siamo assimilati agli extracomunitari – mi confida Pietro, fornaio di un negozio di Via della Resistenza con un forte accento campano – ma qui comunque la convivenza mi pare, per ora abbastanza tranquilla. Qualche anno fa alcuni arabi ubriachi ci davano fastidio visto che stiamo aperti al pubblico tutta la notte. Ma ora non ci sono particolari problemi anche se, ovviamente, non lascerei sola la nostra commessa di notte in questo quartiere. Con l’attuale situazione speriamo che non esploda nulla, ma siamo sull’orlo di un vulcano per tutti, per noi come per loro. Gli algerini che acquistano l’acciaieria? Finché non vediamo i soldi e le riassunzioni non ci crediamo.»
Incontro Abdul, ultima voce di questo breve ma lungo viaggio che si propone di testimoniare solo un piccolo spicchio di questa realtà piombinese, in un bar di Corso Italia. Ha quasi 50 anni e viene da Casablanca. «Nulla, non è rimasto più nulla in questa città» mi dice sconsolato davanti a un bicchiere di birra italiana. «Il lavoro è finito da anni, non si trova più nemmeno al nero. Sto qui solo perché ho la carta di soggiorno a lungo termine e vivo da un mio cugino. Non ci sono più donne né divertimenti, non c’è più nulla. Non ci chiamano più nemmeno per imbiancare le case: risparmiano facendo da soli». E sembra davvero il paradigma di questa Piombino postindustriale che deve ancora trovare una sua identità, che spera nell’acciaio ma avrà di più l’agro-alimentare, che lascia che i proprio figli, nati qui oppure no, si lascino prendere dallo sconforto e dalla fame.
Abdul mi porta a far vedere la propria casa: tre stanze più bagno vicino a Viale Unità d’Italia dove abitano lui, suo cugino, la moglie del cugino con i suoi quattro figli. I mobili sembrano presi dal cassonetto e riadattati, il forno è a gas con la bombola, il riscaldamento pure. «Qui dobbiamo stare attenti o saltiamo per aria» mi dice Abdul «oppure moriamo asfissiati». L’odore è intriso di forti spezie e sudore e la televisione rilancia programmi in francese di emittenti arabe. «Ho provato anche a prostituirmi ma non piaccio né agli uomini né alle donne. Sono troppo vecchio e con la pancia da birra anche se mi sono spezzato la schiena da quando avevo 12 anni» prosegue. «Qui è meglio della mia casa precedente, stavamo in cinque in uno stanzino con i topi, i ragni e senza bagno». E gli domando se non avesse mai pensato di tornare in patria. Lui mi risponde: «A far cosa? Noi marocchini siamo più individualisti, non siamo comunitari come i senegalesi, eppoi non ho quasi più nessuno giù da me. Meglio sopravvivere qui.» Il nostro colloquio è terminato, ho finito il tè che mi ha offerto con la teiera tradizionale, bollente e dolce, e faccio per andarmene. Lui mi stringe sulle spalle e mi abbraccia quasi con le lacrime agli occhi: «Io vorrei ancora lavorare, se me ne dessero l’opportunità. Siamo tanto soli, noi, qui.»

Andrea Panerini

 

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Scritto da il 12.12.2014. Registrato sotto cronaca, Foto, Toscana-Italia, ultime_notizie. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione

9 Commenti per “VIAGGIO NEL «GHETTO» DI PIOMBINO”

  1. riccardo

    Mi dispiace di questa situazione che purtroppo non si trova solo a Piombino ma in tutta Italia,ma vorrei fare una domanda al giornalista che ha scritto tutto nei minimi particolari…Sig Panerini,ma lo sa che esistono migliaia di anziani regolari cittadini Italiani che vanno a cercare nei rifiuti qualcosa da mangiare tutti i giorni???Perchè non ha parlato di loro?? Secondo me uno dei grandi mali e problemi della nostra bella Italia è proprio quello di NON curare il nostro dei mali, ma curare prima il male degli altri…scusate l’intromissione e buone feste a tutti

  2. simone

    della serie pessimismo e fastidio! Leggi questi articoli e sembra tutto da buttare…

  3. Luca

    Ho letto l’articolo, i commenti qui e quelli su Facebook e mi chiedo: la gente lo capisce l’italiano? Il giornalista ha fatto una serie di interviste a persone disagiate e a volontari della San Vincenzo de Paoli. Ne è uscita una situazione. Non ha detto che tutti i senegalesi o marocchini sono così, oppure che questi sono meglio degli italiani. Anche se fossero solo quei tre che ha intervistato (e quindi non è tutto da buttare) ci sono tre casi di degrado sociale in città. E vanno risolti.

    Fare come gli struzzi, mettendo la testa sotto la sabbia non li aiuterà. Purtoppo noi piombinesi pensiamo di essere immuni dai problemi, e in questo modo finisce che non li risolviamo, magari dando colpa ad altri delle nostre mancanze.

    E’ stato indicato un posto e un problema. Ci sono molte famiglie in crisi a causa dell’industria, sia italiane che straniere. Magari proprio quella davanti alla tua porta sullo stesso pianerottolo. Far finta di non vedere non li aiuterà.

  4. Emiliano

    Questo articolo mi ha fatto ricordare quanto bravo giornalista sia Andrea Panerini. Certi commenti visti qui e su certi “gruppi” di FB fanno rabbrividire e mi fanno capire quale fauna ormai abiti da queste parti. Come si fa a dire che questo reportage è contro gli italiani o la Caritas? E poi questo è un reportage, riporta i fatti mica è un editoriale che cerca soluzioni… A meno, come sono sicuro in alcuni casi, non vi siano dei pregiudizi nei confronti dell’Autore, magari perché è gay, è protestante, ha certe idee politiche e/o per vecchie ruggini personali… Dove altro li trovati pezzi di questo spessore in questa zona?

  5. Paolo Gianardi

    Inchiesta sul campo: una rarità giornalistica (e non solo).

  6. Silia Voltumna

    Mi ha fatto male questo reportage. E’ il ritratto, una volta tanto dal vero, di una situazione. Non esprime giudizi, non fa commenti, semplicemente riporta una situazione, mostra la realtà per quello che è e ci dà l’opportunità di riflettere su una realtà non troppo conosciuta: quella delle piccole città, dove la gente, italiana o immigrata non importa, soffre della crisi, del degrado e della mancanza di opportunità e lavoro, allo stesso modo che nelle grandi città. Confesso che mi illudevo che nelle piccole città ci fosse più solidarietà, più aiuto reciproco e pietà umana, Avevo sempre sentito dire che il problema vero erano le metropoli. Da questo reportage mi accorgo che non è affatto così.

  7. Alberto

    Ah l’invidia! Invece di essere contenti che Piombino abbia una persona come Andrea con la sua professionalità tutti a dare contro. Anche io non sono sicuro di come relazionarmi con gli immigrati ma il pezzo di Andrea, che separa i fatti dalle opinioni (non come anche certi scribacchini locali) è un degno reportage, qualcuno mi ha detto anche da “Espresso” e non credo esageri. Prima di criticare una persona come l’autore, con la sua cultura, la sua conoscenza anche di altre realtà del paese, molti dovrebbero lavarsi con il sapone la bocca…

  8. Lisa

    “”Chaka ha 39 anni, è sposato, con cinque figli e tutta la famiglia in Senegal””

    Io sono una quarantenne italiana, non ho figli perché non me li sono potuti (purtroppo) permettere e x il momento guadagno 750,00 euro al mese.

    Il nuovo regime oggi si chiama menzogna! Parlate di stranieri e ve ne fregate dei vostri connazionali. Ai “giornalisti” come l’individuo che scrive certi articoli un solo commento: fate vomitare!

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