VENTURINA: ABBIAMO VISITATO L’ARMENIA NEL 100° ANNIVERSARIO DEL GENOCIDIO

l'interno del monumento al genocidio

l'interno del monumento al genocidio

l’interno del monumento al genocidio

Venturina (LI) – Dopo Giordania, Turchia, Polonia, Israele, Spagna, Portogallo, quest’anno la parrocchia della «Sacra famiglia» di Venturina Terme ha scelto una meta euro-asiatica per il suo pellegrinaggio annuale all’estero. Da martedì 15 settembre per otto giorni il gruppo, del parroco don Gianfranco Cirilli ha visitato l’Armenia, dove quest’anno si celebra il centesimo anniversario del genocidio del 1915 il cui museo è stato visitato nell’escursione del primo giorno.

Tappe del pellegrinaggio sono state Kiev, per proseguire poi verso la capitale Yerevan. Nel programma erano previste le visite di diversi monasteri sparsi nelle vicinanze della Capitale: così Gegahrd, Khor Virap, Gosbavank, Sanahin e Haghpat e sono stati toccati nel pellegrinaggio anche i siti archeologici delle antiche capitali di Dvin e Echmiadzin.

Riportiamo a qualche giorno dal ritorno della comitiva un interessante reportage di Fiorenzo Bucci.

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gita armenia1Ma cosa è e dove è l’Armenia?

Confessiamolo: non ce lo insegna la nostra povera scuola e neanche ce l’hanno indicato i più nobili tg che pure in aprile, tra due annunci di Renzi ed una puntata della telenovela della piccola Jara, qualcosa hanno dovuto dire sugli avvenimenti in corso a Yerevan, la capitale.

Chi sfugge alla reclame per un supplemento d’estate alle Maldive e si avventura su una rotta verso est, alla fine in Armenia ci sbarca. Come del resto è capitato ad un gruppo di venturinesi accompagnati in un pellegrinaggio dal parroco Gianfranco Cirilli. La strada passa di regola per uno scalo nell’asettico, ovattato, paurosamente quieto aeroporto di Kiev nel quale il timore di uno scoppio ti accompagna finché il tuo volo non riprende e finalmente ti indirizza alla meta. Non sei ancora arrivato che dall’alto di un grattacielo ti strizza l’occhio la grande insegna della LG elettronic. Luci e colori illuminano il tuo cammino verso il centro; neanche ti assale la curiosità: tutto già visto, sei a casa.

Pochi minuti dopo incontri Cristina. Lei è armena che più non si può. Parla un italiano impreziosito da un uso puntuale del condizionale e arricchito da espressioni gergali che completano il suo vasto vocabolario. Roba da cattedra più che da banco nell’ora di italiano in qualche istituto che nel Belpaese ci ostiniamo ancora a chiamare scuola.

“Quella armena – dice Cristina – non è una nazionalità, è un destino”. La guardi, questa ragazza dai grandi occhi , pensi e dimentichi le insegne e l’aria di casa. No, non sei arrivato in piazza Garibaldi o in via Dante, sei in un paese straniero, complesso, difficile, dalla storia lunghissima e travagliata nella quale il cammino della civiltà e dei grandi valori si intreccia con quello delle grandi tragedie e dei grandi lutti.

L’Armenia le ha conosciute quasi tutte le dominazioni dei prepotenti della storia e ci consola poco se la nostra, quella abbastanza breve dei romani, sia considerata la meno terribile perché, al solito, ci viene riconosciuto il cuore del buon commensale che, quando invade la tavola altrui, alla fine finisce per far bisboccia col padrone sopraffatto. “Voi – dice Cristina – almeno importavate anche cultura”. Non mi sentirei di declinare al presente la frase ma mi inorgoglisce il riferimento ad un passato e a una storia che qualcuno, poco avvezzo all’andazzo odierno, almeno ci riconosce all’estero.

Dell’ultimo padrone dell’Armenia, ovvero del paradiso socialista dell’antica Urss, abbiamo scorto tracce notevoli appena fuori della capitale dove il mondo d’improvviso cambia e si veste della miseria e della desolazione più terribile, quella che trasforma l’uomo in numero di una comunità senza volti e senza nomi. Casermoni fatiscenti dove la pretesa di garantire cooperazione e collettivismo comunista è fisicamente rappresentata da un gabinetto per sei o sette nuclei familiari: uomini e donne, bambini e novantenni.

Fabbriche, ormai abbandonate che sorgono accanto a cimiteri, dove masse di operai, dopo una vita di stenti, sono andate a raccogliere la loro ultima busta paga. Ammassi di ferraglie che i padroni rossi hanno abbandonato senza abbozzare una minima attività di bonifica ma non riuscendo comunque a cancellare il ricordo dei pochi ospiti, che invitati per ammirare, uscivano dai capannoni con le loro magliette di tessuto sintetico corrose dall’acido.

Anche la natura è stata bizzarra con questo lembo di terra alla periferia occidentale del grande impero che fu sovietico. Montagne e gole profonde, terra brulla bruciata da estati con 40 grandi e inverni con mesi e mesi di neve accompagnano la fertile pianura dell’Ararat e delle zone a sud verso il confine con l’Iran.

Una volta, l’Armenia, tra i primi imperi della storia, si estendeva dalle coste del Mar Nero, al mar Caspio e prima di subire una pesante sconfitta dai Romani, raggiungeva addirittura il Mediterraneo. Oggi il suo territorio è ridotto a meno di 30 mila chilometri quadrati, una superficie equivalente a quella del Piemonte e della Val d’Aosta, nella quale si distinguono undici province, con 48 città e 949 villaggi censiti. Istituzionalmente l’Armenia è una repubblica semipresidenziale nel senso che il presidente viene eletto direttamente dal popolo ma il potere legislativo appartiene ad un’unica camera dalla cui maggioranza discende l’esecutivo guidato da un primo ministro.

La popolazione, una volta numerosa, è ridotta a meno di tre milioni di abitanti, un milione dei quali concentrati nella sola Yerevan.

Le vicende della storia, e in particolare il genocidio del 1915, hanno prodotto una diaspora pari solo a quella ebraica. Si contano oggi otto milioni di armeni sparsi in ogni angolo del pianeta. Potenti sono le comunità in America (oltre un milione di cittadini), in Russia (un milione), in Francia (500 mila). In Italia vivono oggi 2500 armeni. Legatissime alla madre patria, queste comunità non hanno mai perso il senso di appartenenza e non si stancano di finanziare ogni possibile iniziativa che venga programmata dal governo di Yerevan. Afflitta per anni da un pauroso fenomeno di spopolamento, l’Armenia assiste oggi al rientro di molti connazionali dall’estero.

Non c’è armeno, infatti, che non avverta un fortissimo legame con la propria terra. È capitato di assistere ad un gruppo di studenti universitari in gita scolastica che non trascuravano di stendere la bandiera del loro paese per ogni foto di gruppo. Le facce dei ragazzi mostravano meraviglia di fronte al turista italiano che, incuriosito e non assolutamente abituato ad una simile consuetudine, chiedeva spiegazioni.

E non c’è armeno che non avverta un forte senso religioso al punto che un gruppo di quegli stessi ragazzi ha perfino chiesto di assistere ai riti di una nostra Messa.

Povera ma ricca di valori importanti, culturalmente sviluppata, l’Armenia ha poche risorse e soprattutto vive in un contesto geografico caratterizzato da equilibri precari. Il paese, primo nel mondo ad aver dichiarato il cattolicesimo come religione di stato, è circondato da paesi musulmani con molti dei quali i rapporti sono praticamente inesistenti se non fortemente conflittuali.

La sola Georgia al confine nord, unico sbocco al mare per i commerci armeni, è un paese a maggioranza cristiana ortodossa. Turchia a occidente, Azerbaijan a est, Iran a sud sono tutte aree a forte influenza islamica. Se si toglie l’Iran sciita, con cui l’Armenia ha rapporti commerciali frequenti e proficui, gli altri paesi costituiscono una perenne minaccia per il minuscolo paese cattolico.

“Non posso andare in Azerbaijan, rischierei di non tornare” ci dice Cristina. E basta guardare la carta geografica per capire. Gli azeri di Baku amministrano un’enclave staccata da proprio territorio ed estesa per pochi chilometri quadrati tra Iran, Armenia e una piccola fetta di Turchia in corrispondenza del monte Ararat. Quest’area, il Nakhichevan è da sempre oggetto di contese tra armeni e azeri tanto che neanche Stalin riuscì mai a dirimere le controversie.

Nel 1990 il Il Nakchichevan dichiarò unilateralmente l’indipendenza dall’Urss ma in seguito divenne parte dell’Azerbaijan e tale è riconosciuto internazionalmente . Come se non bastasse esiste, all’interno dell’enclave del Nakchichevan, una minuscola zona di neanche 20 chilometri quadrati, un enclave nell’enclave intorno alle città di Tigranašen, che fa parte dell’Armenia.

Ad est invece è la questione del Nagorno Karabakh a creare enormi problemi. Il possesso del territorio, oggi un enclave in territorio azero, ha scatenato anche una guerra nel 1992 e genera tuttora una situazione di continuo allarme. Nel 1991 quando gli azeri decisero di abbandonare l’Unione sovietica e diedero vita alla Repubblica di Azerbaijan, il soviet autonomo del Nagorno Karabakh, abitato in maggioranza da armeni, non volle seguire l’Azerbaijan e costituì un’entità statale autonoma, appunto la Repubblica del Nagorno Karabakh) – Artsakh. Glielo consentiva un deliberato adottato dal Soviet Supremo nel 1990 che gli azeri non hanno mai voluto rispettare, tanto da reagire con una serie di raid aerei sull’enclave. Negli anni non ha approdato a nulla la mediazione dell’Onu e ad oggi la situazione è tale per cui il governo dell’Azerbaijan ha minacciato di riconquistare il Nagorno-Karabakh con la forza, se la mediazione dell’Osce, ancora in corso, dovesse fallire.

Di male in peggio ad ovest dove l’Armenia condivide il confine con la Turchia. Dire che i due paesi si odiano non è un’esagerazione. La storia è piena di conflitti tra i territori ma il culmine è rappresentato da una enorme tragedia, senz’altro una delle pagine più tristi della storia dell’umanità.

I visitatori che hanno raggiunto l’Armenia quest’anno si sono trovati coinvolti in qualche modo, direttamente o indirettamente, nelle celebrazioni per il centenario del genocidio del popolo armeno. Si tratta del tentativo sistematico e pianificato di eliminare un intero popolo, un’operazione che condusse a morte non meno di un milione e duecentomila persone secondo le stime di storici di diverse nazionalità che hanno studiano l’evento.

All’inizio del secolo scorso, l’avvento al potere in Turchia del movimento nazionalista dei “Giovani Turchi” dette il via ad una frenetica attività per ridestare l’orgoglio patriottico nella popolazione, nelle gerarchie religiose e nei quadri dell’esercito delusi dalle evidenti influenze di potenze “infedeli” (tedeschi, francesi ed anche inglesi) nell’attività politica del paese.

In una visione mirante ad unificare culturalmente e politicamente tutti i popoli d’origine turca, l’Armenia, con la prospettiva di una sua possibile alleanza con i russi, diventò l’ostacolo principale da abbattere.

Già intorno al 1910 in Cilicia iniziarono i primi eccidi che dovevano essere pianificati a partire dal 1915, con l’apporto di “qualificati” esperti tedeschi. I primi arresti nella notte tra il 23 ed il 24 aprile coinvolsero a Costantinopoli l’élite armena. Seguirono deportazioni nei giorni seguenti delle migliori menti verso l’Anatolia e l’uccisione di migliaia di cittadini gran parte dei quali (non meno di un milione di persone) fu sterminato in interminabili marce della morte verso la Siria.

Ai massacri faceva seguito la distruzione di ogni opera che potesse rappresentare il passaggio degli armeni sulla faccia della terra. Furono eroici i tentativi di sottrarre preziose testimonianze della cultura armena alla furia ottomana.

Grazie a questa encomiabile e pericolosa attività i visitatori possono oggi ammirare manoscritti, reperti archeologici, opere d’arte di rara importanza storica a Yerevan e nel resto del paese.

Del genocidio esiste nella Capitale la più eloquente testimonianza riunita in un museo che in occasione del centenario è stato arricchito ed ulteriormente sviluppato.

Nelle sale, dove come ad Auschwitz regna il rispettoso silenzio dovuto alle tragedie, si possono conoscere gli orrori, le devastazioni, la pazzia che la storia hanno travolto per indirizzarla nel buio della morte.

Ogni foto, ogni reperto è un colpo al cuore. E come ad Auschwitz si stenta a capire.

Il visitatore che ha attraversato le stanze dello Yad Vashem a Gerusalemme, rivive le stesse sensazioni nel padiglione del monumento a genocidio di Yeravan.

La Turchia a tutt’oggi nega il genocidio che è invece riconosciuto da moltissimi dei più importanti paesi del mondo.

Perché nessuno dimentichi a guardia della fiamma eterna che ricorda i caduti ci sono i bambini. Quelli piccoli li accompagnano gli insegnanti; si fermano guardano ed abbassano la testa. Già così piccoli avvertono, come dice Cristina, non di avere una nazionalità ma un destino.

Quelli più grandi li trovi a turno sull’attenti all’esterno all’inizio del grande viale, inediti soldati a guardia di un ricordo che si perpetua per le generazioni.

FIORENZO BUCCI

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Scritto da il 11.10.2015. Registrato sotto cronaca, Foto, ultime_notizie, Viaggi & Turismo. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione

2 Commenti per “VENTURINA: ABBIAMO VISITATO L’ARMENIA NEL 100° ANNIVERSARIO DEL GENOCIDIO”

  1. Sandro

    Beati voi, Beati voi che avete avuto la fortuna di visitare l’Armenia.
    Io da anni sogno quella meta e per mancanza di partecipanti è sempre stata sospeso il viaggio. Ora per motivi di salute non posso partire, ma appena sarò in buone condizioni e Dio lo vorrà, troverò il modo per visitarla!
    Nel mio piccolo lo scorso novembre 2014 ho organizzato un convegno nella mia città dal titolo IL GENOCIIDIO DIMENTICATO. Lo potete vedere, se non è stato tolto su you tube e scrivete il genocidio dimenticato Fermignano. Se compare un video con un signore con la fascia tricolore, il mio sindaco e diversa gente seduta dietro un banco con sfondo una parete in legno, è il video che vi dicevo. Seguitelo.

  2. Ci sono due video con quel titolo:

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